La Diocesi di Caltagirone accoglie "Il rumore del mare" di Giovanni Iudice
COLLEZIONE DA TIFFANY | 12 agosto 2017
«Un messaggio forte sull’accoglienza dell’uomo e sul dialogo tra le diverse culture che fanno parte del tessuto sociale della nostra terra» così Don Fabio Raimondi, direttore del Museo Diocesano di Caltagirone, descrive la mostra il “Rumore del Mare” di Giovanni Iudice allestita nella Cappella Neogotica del Museo e aperta al pubblico fino al prossimo 7 gennaio 2018.
L’esposizione “sicula” – a cura di Giuseppe Iannaccone e realizzata, su forte impulso della Diocesi di Caltagirone, in particolare del Vescovo Calogero Peri e di Don Fabio Raimondi, con il patrocinio della Regione Sicilia (Assessorato Turismo, sport e spettacolo) – rappresenta
un continuum della personale dell’artista tenutasi negli scorsi mesi a Firenze, integrata, però, da ulteriori opere presenti sul territorio siciliano, anch’esse incentrate sulla migrazione.
Un fenomeno questo che Giovanni Iudice ha deciso di fare “proprio”, raccontandolo nelle opere con estrema sincerità e lucidità. I lavori esposti presso il Museo, molti dei quali provenienti dalla Collezione Iannaccone, denunciano “senza filtri” l’attualità e la drammaticità del tema, stimolando, in particolare, una riflessione sul carattere “ignoto” del viaggio che i migranti intraprendono. L’intensità del blu del mare, l’oscurità di cieli senza stelle, la rappresentazione di personaggi annegati, la raffigurazione ricorrente di clandestini approdati e massificati, come anime sparse e ormai sconosciute a se stessi e agli altri, gli sguardi famelici rivolti verso cibi già consumati, gli oggetti personali trascinati dalla corrente sulla costa, descrivono lucidamente l’eterna attesa dell’imprevedibile momento di riscatto e di riconquista della propria vita e gli stati d’animo essenziali dell’uomo sfinito, spaventato dall’assenza di orizzonti, ma desideroso di vivere.
Non c’è retorica nelle rappresentazioni di Giovanni Iudice, ma “solo” molto coraggio ed estremo realismo; tant’è che i lavori “a matita” dell’artista appaiono volutamente “fuorvianti” al punto da sollevare nell’osservatore il (legittimo) dubbio di avere davanti a sé uno scatto fotografico immortalante un momento di cronaca contemporanea. E’ così che, tramite la propria pittura raffigurativa, caratterizzata da tratti decisi e colori intensi (ma spesso scuri), l’artista descrive con autenticità e crudezza la sua profonda attenzione verso l’umanità, riuscendo, a offrire una profonda (e indelebile) testimonianza dei disagi dei nostri tempi.
L’esposizione in corso al Museo Diocesano intende portare in primo piano la necessità di un impegno sociale, coinvolgendo lo spettatore, come dichiarato da Don Fabio Raimondi, in «un cammino che spesso si colora delle tinte della disperazione, ma che motiva l’accettazione del sacrificio, il coraggio del rischio». «In un tempo in cui l’argomento “migranti” sembra essere caduto in una serie di gravi contraddizioni, orientate troppo spesso sul versante dell’esclusione, – spiega ancora don Raimondi – la mostra di Giovanni Iudice si colloca come possibilità di un approccio alla riflessione: la storia ci dice infatti che è già in atto una nuova migrazione dei popoli come altre ce ne sono state nella storia. Non e’ possibile guardare con diffidenza al fratello di un’altra etnia vedendolo come nemico, ma considerare che anche noi siamo stati migranti e l’uomo è comunque un homo viator. Si tratta dunque di avvicinarsi al dramma dell’uomo contemporaneo, facendolo proprio per farsi “uomo-accanto” all’uomo».
Deborah Caputo: A suo parere, le opere dell’artista hanno come finalità la “sola” denuncia sociale del fenomeno della migrazione o si propongono anche di offrire una soluzione?
Don Fabio Raimondi: «Certo l’aspetto della denuncia è leggibile in tutte le opere di Iudice, anche in quelle meno dirette, ma in realtà questo non è l’unico messaggio. Nelle opere si percepisce la volontà dell’autore di umanizzare il messaggio senza fermarsi al rappresentato: dietro ad ogni opera c’è un vissuto, una storia narrata attraverso gli occhi dell’autore. La cosa straordinaria è che anche l’osservatore viene chiamato a leggere in ogni opera una storia, un racconto che appartiene forse al proprio vissuto e che diventa, attraverso le pennellate attente e minuziose, una finestra aperta sul dramma dell’uomo contemporaneo».
D.C.: La mostra è ormai in corso da circa una settimana, quale impatto ha avuto sul pubblico, sia sulla comunità locale, sia su eventuali (e immagino numerosi) visitatori “esterni”?
D.F.R.: «La cosa che si registra in questi primi giorni di esposizione e l’interesse crescente nell’accostarsi a quelle che a primo acchito sembrano fotografie: osservare lo stupore nello sguardo di chi non conoscendo le opere dell’autore si accosta per la prima volta alle tele o ai disegni ci regala piacevoli emozioni. Il riscontro è davvero positivo e lo si deduce anche dai messaggi scritti sul libro delle firme. Spesso il visitatore va via con le lacrime agli occhi: non si tratta di semplici emozioni, ma di essere giunti al cuore di chi ha voluto entrare in relazione con le opere in mostra. Il video molto intenso aiuta a entrare meglio nella riflessione del mistero della vita, senza più confini, come descritto dalle frasi scritte in italiano, arabo ed ebraico all’interno dell’istallazione della barca. Un approccio ecumenico che valica i confini dell’appartenenza religiosa per sconfinare verso l’amore eterno che accomuna ogni fede. “Apertura” non chiusura è dunque la parola d’ordine di questa mostra e il messaggio che si vuole dare al pubblico vicino e lontano».
Debora Caputo
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