Dare voce a chi non ha voce
3 dicembre 2017
E, allora avevo l’impressione come se una voce mi chiamasse lontano,
e che se fossi andato sempre dritto, sempre, sempre,
fino ad arrivare a quella linea dove cielo e terra si incontrano,
allora avrei trovato la soluzione dell’enigma che mi angosciava,
la visione di un’altra esistenza, mille volte più viva e rumorosa della nostra.
Fëdor Dostoevskij*
Quando lo sguardo si posa sull’orizzonte circostante e gli occhi vengono pervasi dai colori caldi della terra, con le molteplici variazioni di toni e di intensità; quando, andando ancora oltre l’immediato, si raggiunge la distesa di un intenso blu accarezzato dallo sconfinato chiarore del cielo, non c’è dubbio: siamo in Sicilia.
Immersa al centro del Mediterraneo, da sempre è stata ricettacolo di molteplici culture che nei secoli si sono integrate tra loro dando vita a quella che è stata definita sicilitudine, che condiziona cultura e arte, e che ciascun artista esprime a suo modo, mostrando il proprio animo siciliano, spesso tanto semplice nei tratti figurativi quanto complesso e profondo nella sua essenza filosofica. Dare voce a chi non ha voce è la vocazione propria dei simboli e dei segni, comunicazione silente che proprio le opere d’arte sanno dare: il mare, le campagne, gli alberi - parafrasando l’amico Giuseppe Iannaccone - sono soggetti spesso utilizzati dagli artisti nell’espressione delle proprie qualità artistiche; ma la capacità di trasmettere “l’armonia dell’invisibile” in modo metafisico, profondamente intimo, parlando del “desiderio di isolamento mentale per apprezzare i valori della vita” è propria di Piero Guccione, uno dei maggiori artisti italiani viventi, figlio di questa terra di Sicilia. Terra di artisti, di santi e letterati, terra di accoglienza e di contraddizioni, l’Isola mediterranea è sempre capace di esercitare il suo fascino, quasi come una mitologica sirena, sia sui numerosi viaggiatori che decidono di attraversarla, sia su quanti la sentono scorrere prepotente nelle proprie vene. Tanti vanno via cercando altre possibilità, che spesso in essa non trovano, ma poi ritornano: così intraprendono un percorso inverso, alla ricerca di quelle ataviche radici di cui non si può fare a meno, proprio come Piero Guccione, che del contatto fisico con questa terra così unica e col suo mare ha fatto il luogo privilegiato del suo narrare, attraverso i colori dei suoi capolavori.
Si può dire, infatti, che le opere di Guccione siano colme della sua umanità, perché in ogni tratto, in ogni pennellata c’è tutto il suo vissuto, la sua esperienza raccolta negli anni come artista e come uomo. Di questo dimostra di essere consapevole quando afferma: “L’immagine, che si forma a nostra insaputa - che ci sorprende - penso che sia il punto di sintesi, il contenitore poetico di delicati e contraddittori processi di cui l’artista è portatore e che elabora nella sua umanità totale”. Non parla solo di umanità, la definisce “totale”, ovvero aperta verso “l’armonia dell’infinito”, in cui il limite perde significato e si dissolve nell’eterno. Ho sempre pensato di vivere in una dimensione che non ci appartiene veramente, che ci è stata data in prestito, come una grande sala d’attesa in cui si debba vivere pienamente, aspettando di varcare la soglia del tempo, per affacciarsi sull’eternità. Ritornare quindi a fare esperienza della vera essenza della natura e dell’umano. L’essenza di quella primitiva “immagine” di cui è impastato l’uomo ritorna, a volte prepotente, a volte in punta di piedi, ma sempre dando forza alla ricerca dell’assoluto, che percepiamo come lontano e nello stesso tempo così intimo e presente, da non potercelo scrollare di dosso.
In fondo è la ricerca dell’eterno che muove i passi dell’uomo, che motiva le sue scelte, che pervade di energia vitale i suoi sogni e i suoi progetti: cerca, indaga, raccoglie e dopo aver trovato si accorge di quanto inadeguato sia il risultato rispetto al suo insaziabile bisogno di felicità, e così cerca ancora. Poi improvvisamente intravede tra le pieghe dell’apparenza quell’essenziale invisibile agli occhi - per citare Antoine de Saint-Exupéry - capace di aprire orizzonti infiniti di possibilità, che fa guardare la realtà con occhi diversi; si fa strada così la consapevolezza di aver sempre guardato da un’altra parte, come se tutto quello che i nostri occhi riescono a vedere, ciò che i nostri pensieri riescono a progettare o che le nostre mani riescono a creare plasmando la materia, siano solo uno sbiadito tentativo di far vedere il reale invisibile: sembra quasi che l’anima sia già a conoscenza di qualcosa di cui ha già fatto esperienza, ma che non riesce più a ricordare e che cerca instancabilmente di richiamare alla memoria, mossa da una sorta di nostalgia cronica, insuperabile.
Diventa un’esigenza interiore, a dire il vero piuttosto inconscia, cambiare il punto di osservazione, guardare proprio con gli occhi dell’artista, che cerca di fare lo stesso plasmando l’iride della luce fissandola su una tela, per raccontare cosa il suo cuore riesce a vedere. Sembra quasi che volesse dirci: “non fermarti a ciò che i tuoi occhi vedono. Cè di più, c’è molto di più!”.
Questo leggo guardando i capolavori di Piero Guccione, semplici eppure così intensi, naturali, sereni. Ti permettono di sbirciare oltre la tela, di gustare l’imprevedibile senso di infinito da cui si viene pervasi, se solo si è capaci di sconfinare nelle armoniche sensazioni che solo il cielo e il mare di Piero sanno regalare. Ed è cosi che ci si rende conto che l’artista ha raggiunto il suo scopo: “Il mare? - dice Guccione - Cerco di farlo muovere per incontrare il cielo. Ma il senso del cielo è quello dell’immobilità, mentre il mare è la mobilità. Il mare è la fissità mobile, il cielo è la fissità assoluta. Inconsciamente mi adopero per farli incontrare”.
Senza perdere la propria identità, nelle opere di Guccione cielo e mare si in- contrano davvero, quasi si fondono, ma non si confondono; così avviene prodigiosamente anche all’osservatore, quando con la mente e il cuore sgombri dal chiasso interiore, decide di intraprendere un viaggio straordinario tra antico e contemporaneo in perenne dialogo. Questo viaggio voglio farlo anch’io: entro timidamente, un passo dopo l’altro e mi immergo in una storia raccontata con i colori della terra, del cielo e del mare; raccolgo le sensazioni che fanno via via capolino fino a centrarmi nel profondo del cuore, quando intuisco che non mi trovo più nel tempo e nello spazio, ma sono andato oltre... mi fermo a con- templare tanta bellezza e ne rimango sedotto, ammaliato da un non so che di spirituale, che fa espandere il cuore fino a pervadere tutto il corpo. Improvvisa- mente so di essere parte di quel quadro: so di essere io stesso un’opera d’arte!
Don Fabio Raimondi
* Fëdor Dostoevskij, L’idiota, traduzione di Federigo Verdinois, Newton Compton, 2007
https://www.collezionegiuseppeiannaccone.it